Il sito navigabile dei Velisti per Caso!
twitter facebook friendfeed flickr youtube scrivi a

velisti tv

> newsletter

> cerca

> credits

iscriviti alla
newsletter


cerca nel sito

Ce n'è abbastanza per commuovere un Tiki di pietra!

25 June 2002 ore 20:00

A mezzogiorno siamo arrivati davanti a Fatu Hiva. Da lontano è durissima, bellissima, verdissima… sì, la parodia della pubblicità d’alta montagna non è del tutto fuoriluogo perchè l’isola si presenta come, appunto, un picco montagnoso piantato nell’Oceano. 

Passiamo davanti alla "capitale", Omoa: sembra un bel villaggetto. Da lontano di vede una chiesa bianca, con una specie di guglia tipo piccolo duomo gotico-pacifico, e poi delle belle casette attorno. Ma la baia è troppo esposto, troppa risacca, poco fondo. Per cui proseguiamo, si va in un ancoraggio considerato sicuro: la Baia delle Vergini, più a nord, nella parte a nord-ovest dell’isola. Mentre facciamo le quattro miglia che separano la Baia di Omoa da quella di Hanavave (il secondo villaggio di Fatu Hiva) ci viene incontro un gruppo di delfini, che ballano e saltano davanti alla prua. Fanno dei salti che non ho visto fare neanche nei delfinari! Allora gli Dei ci sono propizi!

Forse no, forse gli Dei non c’entrano e i delfini erano impiegati comunali travestiti da delfini e incaricati di dare il benvenuto alle barche straniere… Fatto sta che appena ci affacciamo davanti alla Baia, considerata una delle più belle del mondo, non facciamo neanche in tempo a vederla bene che si alza un vento terribile, raffiche a 30-35 nodi che nebulizzano l’acqua delle onde che, per fortuna, stanno calando man mano che ci avviciniamo a terra. Il fenomeno lo conosco: l’ho già visto a Cala Gonone, in Sardegna. E Marco mi conferma che qui funziona allo stesso modo: il vento soffia dall’altra parte dell’isola, entra dentro le gole e le valli, si ingigantisce e poi sbocca nella baia, da terra verso il mare aperto. Comunque entriamo e diamo fondo all’ancora, in mezzo ad un gruppo di altre 13 barche a vela, di tutte le nazionalità. Anche loro reduci dalla traversata. E, in tutte le lingue, ci danno il benvenuto e ci chiedono. “Quanti giorni?”. Marco urla, in tutte le lingue che sa (cioè francese, inglese, tedesco e spagnolo), in modo che tutti lo sentano bene: “Quindici giorni, fifteen days…”. E tutti ci applaudono: chi risponde 24 giorni e chi 22.

E finalmente diamo un’occhiata alla baia, anzi, alla gola selvaggia in cui ci siamo infilati. Mare blu, rocce laviche nere, terra di un marrone rossiccio potente, il tutto coperto di verde, anzi, coperto da almeno tre tonalità diverse di verde, che diventano trenta a seconda che il sole (che appare e scompare ditero le nubi) illumini o meno la terra. Su tutti i cespugli e gli alberi spiccano delle palme da cocco altissime, arrampicate sulla riva scoscesa, che si piegano per il vento che ancora soffia fortissimo. I Tiki, cioè le statue naturali degli Dei e dei Demoni primigeni e più potenti della Polinesia, ci guardano dall’alto. Sono i famosi picchi, simboli fallici e nel contempo antropomorfi, che il vento ha modellato. Da loro viene il nome vero della Baia, e cioè Baia delle Verghe, che i simpatici missionari sessuofobi hanno cambiato in Baia delle Vergini, perché in francese basta aggiungere una “i” per passare da un nome all’altro.

 

 

Più tardi


Arrivati nella Baia di Hanavave, sull’isola di Fatu Hiva, alle Marchesi, dopo 15 giorni esatti di traversata (infatti siamo partiti a mezzogiorno di un lunedì dalle Galapagos e siamo arrivati a mezzogiorno del martedì della settimana successiva), abbiamo avuto il tempo di fare un giretto per il Paese. La barca l’abbiamo ancorata in mezzo alla baia, stando attenti a non “pestare” le ancore delle altre barche, poi abbiamo messo in acqua il canotto e siamo scesi a terra.

Raspando il fondo con due ruspe-scavatrici stanno costruendo una specie di diga, praticamente un porticciolo. Forse serve a far attraccare la nave che, una volta al mese, porta i rifornimenti. Oppure il piccolo catamarano comunale che, pare, collega una volta ogni 15 giorni all’isola più importante di Hiva Oa. Subito dopo l’attracco (che per ora è semplicemente uno scivolo di cemento) ci sono le barche, coi bilanceri. Dipinte in bianco e rosso. Poi un campetto di calcio e pallavolo. Poi una cabina del telefono arrugginita (che infatti non funziona). E una striscia di cemento: la strada principale. E di fianco alla strada si stende il minuscolo paesino: case e casette con giardino, la chiesa, la canonica, il microscopico supermercato.

Le case sono, perlopiù, polinesiane “moderne”, cioè linde e razionali baracche prefabbricate, con tetto in lamiera. Poche sono vecchie, con le pareti di foglie di banano intrecciate, e però il tetto sempre in lamiera. Nessun farè, la casa tradizionale. Molti cani, una mucca, un maiale nero grassissimo, un cavallo, due fuoristrada. E la gente. Molto, molto più cordiale di come io ricordassi i polinesiani di Thaiti oppure anche i Marchisiani delle isole principali. Qui è come raccontano quelli che in Polinesia sono arrivati negli anni ’50: tutti ti considerano, ti notano, ti salutano, si presentano. E’ bello, è coinvolgente.

Adesso, nei saluti di questa bella gente (cicciottoni, perlopiù, alti e grossi) trovo il senso di questo lungo viaggio: abbiamo fatto più di seimila chilometri, però siamo arrivati davvero in un altro mondo! Ne valeva la pena! E subito cerco conforto negli altri miei compagni di viaggio, che qui in Polinesia non c’erano mai stati. Giacomo capisce, fa segno di sì: è stupito e come pieno di immagini che non si aspettava.

Facciamo amicizia con un signore che ci porta a casa sua a telefonare alla guida che abbiamo prenotato per un giro in macchina l’indomani, poi ci regala un ramo di banane e ci fa vedere la TV con le ultime notizie dei mondiali di calcio. Allora Marco torna in barca e gli porta una bottiglia di vino. Giacomo, Giovanni e Vanni vengono invitati da un altro ragazzo che gli regala altre banane e un sacco di pesce. Finiamo la serata in chiesa, a sentire le donne e i bambini (e anche molti uomini) che cantano un loro rosario. Il prete (non ho capito di quale setta, se protestante o cattolico) viene da Hiva Oa, con il catamarano comunale, due volte al mese. Ma loro cantano tutte le sere. Se abitassi ad Hanavave, ci verrei anche io in chiesa tutte le sere. Mi siedo davanti agli scalini, al buio, mentre dentro cantano. Penso a Zoe. Qui ci sono un sacco di donne e di bambine con lunghe trecce nere, come le sue.

Il viaggio, la traversata, i canti, Zoe: ce n’è abbastanza per commuovere anche un Tiki di pietra. E io sono fatto di carne, ben frollata da 15 giorni di oceano. Ed è quasi un oceano, di lacrime. Ma sono al buio, e non mi vede nessuno. Non se ne accorge neanche Enrico, al quale continuo a dare indicazioni sulle riprese da fare: “Fammi il tramonto. Fammi una carrellata sulle facce in chiesa…”.

Sia chiaro: le crepe del paradiso si vedono ad occhio nudo. C’è lo scemo del villaggio, il gruppetto di ragazzi nullafacenti e disadattati, le beghine pettegole e impettite che in chiesa stanno in prima fila. Soprattutto si respira come una assenza generale. Chiedo cosa fa la gente. Molti lavorano per il Comune, alcuni scolpiscono il legno, qualcuno pare faccia ancora il pescatore, pochissimi coltivano la terra (di tetti mobili per seccare la copra ne ho visto uno solo). E’ un mondo che galleggia, tra passato e futuro, senza lotta per la sopravvivenza ma anche senza più una vocazione propria e una forte identità. Ma a questo penserò domani. Stasera voglio stare qui, sui gradini della chiesetta.

 

Patrizio

Inserisci commento

Inserisci il codice

riportato qui a fianco

Questo website utilizza i cookie per migliorare la vostra esperienza d'uso. Proseguendo la navigazione date implicitamente il consenso all'uso dei cookie. close [ informazioni ]