Il sito navigabile dei Velisti per Caso!
twitter facebook friendfeed flickr youtube scrivi a

velisti tv

> newsletter

> cerca

> credits

iscriviti alla
newsletter


cerca nel sito

Consigli di lettura

Con quali libri di mare cominciamo l'anno?

Quanta schiuma c'è nel mare?

Un libro di curiosità marine

N'zid. Questo mare è la mia terra

Malika Mokkedem racconta il rapporto di una donna con il mare

Robert Louis Stevenson

Dall'Inghilterra a Upolu, isole Samoa

La fisica in barca

Quello che tutti i marinai devono sapere per governare la barca

Navigare in Magna Grecia

Mare e terre tra mito e realtà

Diario di una traversata

Un libro di Franco Cammarata

Atlantidi

Un libro del Gruppo Pangea

I fari italiani

L'Italia ha oltre 7000 km di coste, i fari sono importanti!

In viaggio, di Franco Donatini

Un libro di racconti dedicati al mare

In viaggio, di Franco Donatini

Franco Donatini è l'ingegnere di Enel esperto di energie rinnovabili che ha lavorato per rendere Adriatica una barca ecologica. L'esperienza velica l'ha affascinato così tanto da infodergli l'ispirazione per un libro di racconti dedicati al mare! La raccolta si intitola "In Viaggio" (Felici Editore) e ha la prefazione di Patrizio:

 

Ho un babbo e uno zio geometri, e un sacco di amici architetti, per cui sono cresciuto nell’idea che un ingegnere sia per forza un tipo freddo e calcolatore. Ho conosciuto l’ingegner Franco Donatini in viaggio, nella sua funzione professionale di esperto di energia. Ma il “pregiudizio dell’ingegnere” è durato cinque minuti: Franco ha tratto dalla sua professione ufficiale soltanto una grande capacità di analizzare i meccanismi, tutti i meccanismi del comportamento, del paesaggio, della vita. Il resto è sensibilità, fantasia, poesia. E quando scrive tutto questo diventa evidente, tangibile.

Nel suo capitolo intitolato Molecole riesce a sviluppare e ad armonizzare un discorso che partendo dalla Scienza, passa per la Poesia e arriva alla Filosofia. Franco, senza farlo pesare, sintetizza in un racconto il nocciolo esistenziale delle teorie darwiniste sull’origine della vita sulla terra.

Nella sua prefazione, e magari nel racconto Ushuaia, rappresenta perfettamente la genesi di un viaggio, cioè come nasce la curiosità che ti fa superare la pigrizia e l’ansia e ti convince a partire.

Nella sua prosa pulita, da toscano, quando racconta la storia dello Zio Beppe, sembra il De Amicis viaggiatore, quello di “Dagli Appennini alle Ande”. Ma è solo un attimo, perché subito dopo il racconto diventa molto serrato, sintetico e distaccato come un Bruce Chatwin, e finisce per toccare le corde epiche di un Francisco Coloane. Tutto senza perdere la sua eleganza, il suo distacco, la sua pulizia letteraria.

Franco quando viaggia privilegia le persone: le incontra, le interroga, condivide la loro intimità, le immagina, le proietta nella sua fantasia e nel contempo ce le fa vedere nella loro realtà (Zhang la cinese e Wafa la palestinese). A volte le romanza, ma il taglio tra fantasia e realtà è talmente ben cucito che non si vede nemmeno al tatto, come un rammendo ben fatto.

Una cosa che invece si vede (e si legge) benissimo è che Franco, generalmente, non viaggia per puro piacere, come turista. E questo è un privilegio che io ben riconosco, perché lo condivido con lui. Alla famosa domanda chatwiniana “Cosa ci faccio io qui” chi viaggia per lavoro può sempre darsi una buona risposta, e da qui trarre motivazioni e soprattutto pretesti per incidere di più sulla realtà, fare domande, cercare di capire.

Quindi Franco a volte è quasi giornalista (quando annota nel suo diario), altre volte quasi turista (quando prima di mangiare un fico in Palestina ha paura di prendere la diarrea). Ma non si ferma qui: spesso è semplicemente scrittore. Viaggia persino nel tempo, ricavando da quel che il presente gli offre degli squarci di storie passate. Viaggia nei romanzi e nelle citazioni che gli evocano i luoghi, dando alla fine liberissimo sfogo alla fantasia.

Diventa suo padre, diventa una ballerina... Alla fine i racconti di Franco Donatini sono davvero “viaggi”, nel senso più completo e libero del termine.

 

Patrizio

 

Colori

Da "In viaggio", di Franco Donatini

Rangiroa (Polinesia), settembre 2007

 

La brezza degli alisei gli accarezzava la faccia abbronzata dal sole e scavata dal salmastro, che si insinuava nelle pieghe della sua pelle rugosa.

L’uomo camminava lentamente affondando i piedi nella sabbia bianca, che si confondeva con la trasparenza cristallina dell’acqua della laguna, in una sorta di continuità tra terra e mare. Più in là, oltre la barriera corallina, l’oceano batteva con fragore, creando creste bianche spumeggianti. Era un’immagine di possente violenza che si contrapponeva alla quiete della laguna, con lingue di sabbia che vi si insinuavano, ammantate di colorati e profumatissimi tiarè, con cui le donne locali intrecciavano collane di fiori.

L’uomo era arrivato in prossimità di una capanna sostenuta sull’acqua da tronchi di palma. Percorse la passerella barcollante ed entrò. Hiro lo salutò nello stesso modo di sempre: “Iaorana” e lo invitò a sedersi allo stesso tavolo. Non aveva bisogno di chiedere, conosceva ormai i suoi gusti e le sue abitudini.

L’uomo assaporò il piacere della frescura dell’ambiente che lo spesso tetto di foglie intrecciate di cocco e di pandano proteggeva dalla calura del mezzogiorno. Guardava Hiro che in maniera metodica disponeva sugli umete di legno filetti di pesce crudo e li copriva con una marinatura fatta da un miscuglio di acqua di mare e di gamberi. Ricordava quando per la prima volta gli avevano presentato quella roba ed aveva avuto un forte senso di disgusto a causa del tanfo nauseabondo proveniente dal piatto. In seguito era riuscito a vincere quella reazione di repulsione ed era addirittura divenuto il suo cibo preferito.

Da quando era in quell’isola aveva recuperato le energie che gli anni gli avevano progressivamente sottratto, si sentiva giovane dentro, benché di fuori la pelle cadente mostrava inevitabilmente segni della vecchiaia. Era partito dal suo paese alcuni anni fa, quando sua moglie lo aveva lasciato, stroncata da un male incurabile. Era stata una decisione sofferta ma non se n’era pentito. La sua salute precaria era subito migliorata. L’asma ed i dolori reumatici che lo tormentavano erano spariti come per incanto, nello stesso modo in cui il sole e l’aria tersa del Pacifico avevano dissolto la opprimente nebbia padana.

Viveva in una sorta di Eden, che gli risparmiava i dolori del corpo e contemporaneamente gli offriva l’immagine di un paesaggio da sogno. Si perdeva nella tersa luminosità che emanava dalla natura lussureggiante, nei colori vivaci delle vesti della gente locale e nella prorompente e disinibita sensualità dei loro corpi.

L’uomo si gettò con voracità sul fafaru che Hiro gli aveva portato e che era ormai divenuto il suo cibo abituale. I cubetti bianchi di pesce erano mischiati con fettine di verdure, che creavano un effetto policromo, il tutto bagnato con acqua di mare e condito con succo di limone e latte di cocco. Il pesce era praticamente ancora vivo. Hiro lo aveva estratto dalla vasca che fungeva da acquario, disposta nel centro della capanna e rifornita ogni mattina dai pescatori.

L’uomo sapeva che la sua salute era legata all’energia vitale contenuta in quei pesci, che si trasferiva direttamente al suo corpo. Quel cibo era divenuto la sua essenza, che si alimentava attraverso la catena alimentare percorrendo forme di vita via via sempre più semplici, fino a ricollegarsi col mare, l’origine della vita. Ma non era solo questo: era come se lo spirito di quell’isola tropicale si trasferisse in lui attraverso una catena biologica in cui tutti gli anelli intermedi continuavano a mantenere la loro identità. I pesci che divorava rappresentavano lo strumento di questo processo di metamorfosi. Divorandone le carni vive ne assorbiva i colori, in una sorta di rito primitivo ed ancestrale, che si ripeteva ogni giorno nella capanna di Hiro.

Sentiva di essere ormai divenuto una parte integrante dell’isola, come se la sua individualità si fosse dissolta in una materia policroma, distribuendosi nello spirito delle acque limpide della laguna, dell’ibiscus e del gelsomino dal profumo fragrante, della miriade di uccelli dai colori variopinti ed infine della gente col corpo adornato di tatuaggi che evocavano misteri e tradizioni tribali.

L’uomo bramava di fissare in maniera indelebile questa sua condizione di completa simbiosi con la natura tropicale, ma sulla tela i colori rimanevano soltanto colori, non generavano immagini, non trasferivano messaggi o sensazioni. Tutto si disperdeva in un disordine cromatico, da cui non scaturiva alcuna forma compiuta, come se tutto riconfluisse in una sorta di brodo primordiale. Si sentiva impotente come se quella completa armonia che aveva costruito con l’ambiente dell’isola e che lo preservava dal dolore e dalle sofferenze tipiche della natura umana, lo avesse completamente privato della sua capacità di esprimersi.

Improvvisamente alzò gli occhi ed il suo sguardo si concentrò sull’acquario da cui Hiro prelevava i pesci per preparare le gustose pietanze. Notò per la prima volta che alcuni di essi non venivano mai selezionati. Ve n’erano tantissimi, pesci farfalla, angelo, pagliaccio, tutti splendidi e coloratissimi, che nuotavano tranquilli ed apparentemente felici tra concrezioni di corallo con un effetto cromatico, veramente spettacolare. Non rischiavano la vita, non sembravano affatto terrorizzati quando Hiro infilava il retino e selezionava la sua preda.

L’uomo sentì che quei pesci gli somigliavano, erano pesci comparsa, come lui era diventato un essere comparsa in quell’isola meravigliosa, in cui viveva condannato da una sorta di immortalità.

Aveva perso il piacere di ammalarsi, di soffrire e forse di morire, perché ormai non era più un essere vivente, ma solo un minerale, come l’acqua verde della laguna, come la sabbia bianca su cui sbocciavano i fiori di ibiscus ed i profumatissimi tiarè, come i banchi di corallo che ospitavano indifferenti la ricchissima vita sottomarina. Profondamente colpito da questa intuizione, si alzò da tavola e attraversando la spiaggia raggiunse di corsa la bicocca, sul bordo interno della laguna. Si rese conto che il suo respiro era affannoso e le sue membra gli dolevano come non succedeva da tempo. I pennelli e la tavolozza erano sparsi sull’impiantito di legno in maniera disordinata.

Li afferrò con decisione, si avvicinò al cavalletto e cominciò a stendere i colori sulla tela con una passione di crescente intensità. A mano a mano che la tela si riempiva di colori, le immagini si facevano via via più nitide, fino a diventare aggressive, per poi assumere i contorni crudi ed inquietanti di una realtà incombente e conflittuale. Le immagini si deformavano continuamente in una incessante dinamicità. L’oceano si gonfiava in maniera minacciosa ed inondava le quiete acque della laguna. I fiori sbocciavano con una prorompente vitalità, ma poi rapidamente appassivano dissolvendo la loro policroma brillantezza nel rancido ed opaco colore della morte.

I barracuda seminavano stragi per poi finire preda degli squali in un macabro rituale della natura. Infine in alto i cirri correvano travolti dal vento oceanico e poi diventavano grigi, fino fondersi in uno strato di nebbia che come una coltre semitrasparente si stendeva progressivamente sulla tela.

L’uomo avvertì un fremito percorrergli il corpo, sentì il sangue salire dalle estremità e raggiungere le tempie con una pressione violenta e la vista svanire nella nebbia. Lo trovarono il giorno dopo disteso sulla stuoia di cocco, vicino alla tela. Gli occhi, ancora aperti, guardavano il cielo dove la nebbia si era dissolta ed i cirri erano tornati candidi come la sabbia della laguna.

Inserisci commento

Inserisci il codice

riportato qui a fianco

Patrizio e Donatini
Marco, Tonelli e Franco Donatini

Tags

Questo website utilizza i cookie per migliorare la vostra esperienza d'uso. Proseguendo la navigazione date implicitamente il consenso all'uso dei cookie. close [ informazioni ]