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Esploriamo Fatu Hiva

27 June 2002 ore 20:00

Isola di Fatu Hiva. Dal paesino di Hanavave, di fronte alla Baia delle Vergini in cui siamo ancorati, con un fuoristrada con autista, attraversiamo l’Isola per raggiungere Omoa, la "capitale". La strada è terribile. In pratica non c’è. Esiste un sentierone, tagliato da poco sul declivio ripidissimo della montagna. Se solo vengono due gocce non è più praticabile. Ma anche oggi, che non piove, la stradina è talmente ripida, con tornanti tanto stretti in cui si deve fare manovra sul ciglio di burroni profondi, da incutere terrore.

Per un attimo ho pensato che, per fortuna, Maurizia-Syusy e Zoe non sono con me. Altrimenti avrei avuto paura. Per fortuna il panorama ripaga di tutto. Non ho mai visto una cosa del genere. Si passa dalla foresta equatoriale primitiva e primordiale a prati che ricordano la verde Irlanda. Con, attorno, creste di monti lavici e corone nere che staccano la linea dell’orizzonte dal cielo blu con un profilo a zig zag. Uno spettacolo. Che ogni tanto mi fa dimenticare che sono seduto sul cassone di un vecchio pick-up, che scivola giù per un sentiero che sembra una pista di bob, rischiando anche di rovesciarsi per via del vento che soffia ancora ad almeno 60-70 chilometri all’ora.

Arrivati sull’altro versante la strada si allarga e il vento si sgonfia. E, in un’oretta, arriviamo ad Omoa. Subito andiamo dal dottore, con Giacomo. Da qualche giorno soffre di una fastidiosa forma di labirintite, che gli provoca capogiri e mal di testa. Il Dottore è una Dottoressa, francese di Parigi. Io non entro, ma Giacomo esce soddisfatto: gli ha dato alcune medicine e altre gliele ha prescritte, le troverà ad Hiva Oa, nel piccolo Ospedale. Ha la labirintite, provocata forse da disidratazione dovuta alla vita in barca, oppure ad una cura a base di cortisone che ha fatto per guarire da una sciatica.

Ed effettivamente questo incontro con la Dottoressa parigina è già molto significativo: Omoa (e in genere tutta la Polinesia francese che ho visto finora) è come la Svizzera. I servizi essenziali ci sono tutti: l’ambulatorio (dove le cure sono gratis per tutti, anche per noi stranieri), la scuola… A proposito: fino alle 11,30 le strada (l’unica strada, come ad Hanavave) era deserta. Poi hanno aperto le porte della scuola e in un attimo era pieno di bambini, in bicicletta o a piedi, piccoli e grandi, vocianti, allegri, bellissimi. Un altro buon biglietto da visita per il Paese.

Ho fatto un salto alla Baia, la stessa che avevamo visto dalla barca, passando al largo. C’è una targa in ricordo dei navigatori spagnoli che “scoprirono” per primi l’Isola di Fatu Hiva nel 1595. 

Poi abbiamo fatto i turisti: visita al Centro dell’Artigianato dove tre signore gentili ci hanno mostrato come si prepara e come si decora la tapa, la stoffa ricavata dalla corteccia dell’albero del pane. C’era Roberto, che di lavoro fa il capitano del catamarano del Comune che collega Fatu Hiva a Hiva Oa, e che è un appassionato della storia e dell’identità marchisiane. Mi ha ricordato Pascal, che ho conosciuto due anni fa a Nuku Hiva. C’è tutta una generazione attuale di giovani marchisiani che coltivano una forte identità culturale. Come ci ha detto Roberto “guardiamo al nostro passato per organizzare il nostro futuro”. Con Riondino hanno fatto tutta una serie di considerazioni, per esempio, sulle abitudini sessuali e sociali delle Marchesi tradizionali. Senza mezzi termini ci hanno raccontato di come le donne si mettessero bouchet di fiori profumati al tiarè sul sesso, per essere sempre pronte all’incontro con un uomo.

Al di là della retorica che si è sempre fatta sulle Isole dell’Amore, qui l’amore era una vocazione, un’arte. Secondo Roberto, in un luogo in cui problemi gravi di sopravvivenza, grazie alla generosità della natura, non ce ne sono mai stati, le relazioni occupavano molta parte della vita delle persone. Riti afrodisiaci di una società in cui non c’era la famiglia mononucleare ma il clan matrilineare, in cui non c’era la gelosia né la divisione, sia dei sessi che dei lavori.

Poi sono arrivati i missionari, poi sono arrivati i gendarmi che hanno messo in pratica le minacce e le repressioni dei missionari (chi si tatuava, per esempio, era messo in prigione). Ma, soprattutto, 50 anni fa è arrivata l’economia occidentale, in cui ognuno deve fare un solo mestiere specializzato e non più collaborare all’economia collettiva oggi pescando e magari domani costruendo un farè, in cui conta soprattutto l’individuo. E questa armonia si è spezzata. 

Dopo aver mangiato con Roberto in una pensione (pesce, limonata, birra, frittata ai gamberetti con contorno di… pastasciutta, al costo di circa 15 dollari a testa) siamo tornati a Hanavave. E, al ritorno, la strada è sembrata più corta, anche se ugualmente terribile.

 

 

Più tardi


Tornati in barca ad Hanavave dopo l’escursione a Omoa, troviamo una brutta sorpresa. Il guasto alla leva del cambio del motore, che già ci aveva fatto tremare durante la rischiosa manovra dell’ancora che aveva mollato costringendoci ad una fuga precipitosa dalla Baia, non è una sciocchezza, come sembrava in un primo momento. E’ tutto il meccanismo da cambiare. Marco e Vanni hanno un ricambio, ma richiede tutta una giornata di adattamenti, buchi nell’acciaio inox praticati a fatica e molti sforzi. Poi si scopre che non è solo la leva del cambio, è tutto il filo con relativa guaina che va cambiato. E, per cambiarlo, visto che il filo parte dal motore e arriva fino a poppa, passando per un corridoio e due cabine, ci vogliono ore ed ore di lavoro. Bisogna quasi smontar mezza barca…

A volte mi domando: ma se invece di Vanni e Marco avessimo coinvolto qualche skipper “normale”, brava gente, magari, di quelle che sanno aggiustare le cose essenziali ma che di fronte alle rotture vere devono per forza chiamare un meccanico, dove saremmo arrivati? Forse non avremmo portato Adriatica neanche al Salone di Genova, da Fano e da Marina di Ravenna!

E intanto il vento, che era calato, sta rinforzando. Siamo a raffiche di 25-30 nodi. I nostri amici marchisiani dicono che è normale, per la stagione. Anche per questo sarebbe meglio aggiustare il motore al più presto: in caso di emergenza, ci serve averlo efficiente. E’ ormai sera tardi, e ancora non sappiamo se domani saremo in grado di salpare da qui.

 

Patrizio

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