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In pieno oceano incontriamo Sara, la statunitense

21 February 2002 ore 22:00

Anche stamattina stavo dormendo, dopo una notte passata a sbatacchiare di qua e di là per colpa delle onde, quando Cristoforo mi ha svegliato: “Vieni subito in coperta… una cosa eccezionale!” La traversata atlantica me l’avevano raccontata come una cosa tranquilla, invece c’è sempre un pretesto per buttare giù dal letto un povero disgraziato! L’avvenimento era l’incrocio con un’altra barca. Più che incrociata l’abbiamo raggiunta, perché era sulla nostra stessa rotta.

 

Una barca bellina, ma più piccola di Adriatica, che faticava molto di più sulle onde e col poco vento che è rimasto. Si chiamava Sara, e batteva bandiera statunitense. Quando le siamo stati a 20 metri di poppa Marco Covre ha suonato la sirena, e così i due signori che stavano sulla Sara si saranno svegliati di soprassalto. Infatti sono usciti come spiritati, forse pensando ad una bettolina che stava per investirli oppure ai pirati. Erano una coppia americana, sulla sessantina, lui coi baffoni e lei cinguettante, come sono spesso le signore americane. Molto simpatici, ci hanno fatto molte feste, e noi a loro. Perché, mi ha detto Marco, è davvero un avvenimento incontrare una barca in Atlantico! Vanni e Cristoforo gli hanno buttato in coperta dei pezzi di Parmigiano-Reggiano, in segno d’affetto. Nel ’45 gli americani ci buttavano la cioccolata, adesso tocca a noi ricambiare – ho pensato.

 

Dopo che Adriatica si era lasciata a poppa Sara, Covre ha continuato a chiacchierare con gli americani via radio. Erano la classica coppia di giramondo. Hanno già fatto il giro del mondo, sono stati anche in Nuova Zelanda, la nostra meta, e ce l’hanno descritta come un posto bellissimo. Adesso tornavano a casa, perché dopo l’11 settembre gli è venuta una gran nostalgia. Questa cosa mi ha colpito. L’idea del giramondo, in un certo senso apolide, che però risente delle ferite anche sentimentali inferte alla sua identità. Identità nei confronti della quale ha preso, fisicamente e mentalmente, le distanze. Ma che non può abbandonare del tutto. Io mi son chiesto, allora: con che spirito sto facendo questo viaggio?

Certamente – mi sono risposto – anche io faccio questo viaggio per tornare. Anche per me il riferimento resta comunque l’Italia, quello che succede in Italia. A questo proposito abbiamo discusso con Cino di Moitessier, il grande guru-navigatore francese che stava per vincere la prima regata in solitario, stava per ottenere in Patria fama e denaro (5000 sterline nel 1968, se ricordo bene) ma che invece, in dirittura d’arrivo, ha proseguito la sua rotta e se n’è andato in Polinesia, “dove il sole è gratis”, in dichiarata polemica con un mondo, il suo mondo, che voleva abbandonare.

Cino ha detto brontolando che secondo lui Moitessier era matto. Si parte sì, ma per tornare. Altrimenti vuol dire che sei disadattato. Io mi sento per caso disadattato? Per niente! Io sto benone a casa mia, una casa confortevole che soprattutto non rolla e non beccheggia, dove c’è una bambina deliziosa come Zoe. E allora? Perché? Perché? Viaggio per tornare migliorato? Ma ho quasi 50 anni, come posso davvero migliorare? Per vedere? Ma vedere cosa, se ho già capito, girando per il mondo, che non c’è poi moltissimo di diverso, ormai, da vedere? Per avere qualcosa da raccontare? Forse. Per superare limiti e paure? Finora ne ho superate ben poche.

Scusate vi lascio perché sento Cristoforo e Marco che guardano il meteofax e pronunciano frasi del tipo “Ma quando dovrebbe arrivarci addosso?”, “Ci arriva sul naso, ci darà fastidio…”

Ho paura che parlino di tempeste, per domani. Oddio…

 

Patrizio 

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