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Ma in che razza di impresa ci siamo messi?

22 February 2002 ore 12:00

Stanotte non dormivo, come al solito. Detto per inciso: io ho sempre dormito come un ghiro, dappertutto. Qui, soprattutto adesso che mi sto decisamente abituando al ritmo, ho dei tempi strani. Dormo due ore, poi mi sveglio, poi magari mi vien sonno di giorno. Comunque il problema non è questo. Ero sveglio e ho sentito Vanni e Marco che parlavano. Parlavano troppo per essere due sardi: significava che c’era qualche problema. Saranno state le 2 o le 3, non so se nostre o vostre, in Italia (ormai l’orologio non lo uso più, cosa incredibile per me).

 

Mi sono infilato la cintura di sicurezza, senza il gancio, e mi sono alzato. Effettivamente Marco e Vanni stavano meditando di ammainare definitivamente la randa e di andare solo con lo spinnaker. Allora li ho aiutati, come potevo, ad ammainare. Ho aiutato a piegare la randa sul boma, gli ho passato i gerli, le fettucce che servono ad imbrigliare la randa, e che io chiamo scherzosamente i gerriscotti. Lo confesso: non mi sono legato. Effettivamente, se uno vuole muoversi davvero, legarsi è scomodo. Ma non è questo il rischio che abbiamo corso stanotte.

 

Nel frattempo si era alzato anche Cino, che si è messo al timone. Vanni era ancora a prua, a mettere in chiaro non so quale scotta. Io e Marco a poppa, a lavorare sul boma attorno al quale avevamo attorcigliato la randa. Marco ha attaccato la drizza alla fine del boma, per tirarlo su. Ha detto a Vanni di cazzare la drizza. Poi mi ha detto di spostarmi perché il boma, con il rollio della barca, andava a destra e sinistra. Mi sono fatto indietro, mi sono attaccato allo stralletto che tiene l’albero di poppa, quello delle parabole. Ero a 5, 10 centimetri dal raggio del boma.

 

Il boma, a quel punto, sarà stato prima due, poi tre metri sulla nostra testa. Marco si è leggermente spostato alla sua destra, per lascare la scotta della randa che, essendo ancora attaccata al boma, doveva essere mollata per permette al boma stesso di salire ancora. In quel momento il boma è crollato giù. Due, forse trecento chili tra boma e randa. Crollati di colpo. A dieci centimetri dalla mia spalla destra. Un centimetro – un centimetro! – dal collo e dalla spalla di Marco. Ho cacciato un urlo, fortissimo, immediato.

Io che, in genere, di fronte all’imprevisto ho delle reazioni ritardate. Era successo questo: il boma, alla fine, dalla parte opposta in cui è attaccato all’albero, ha un gancio. Un gancio di alluminio, fatto per lavorare in verticale. Qualcuno ci aveva attaccato la ritenuta della randa, cioè quella scotta che impedisce alla randa di strambare, cioè di voltarsi dalla parte opposta rischiando di dare un colpo in testa a qualche distratto. Ma la ritenuta del boma aveva fatto lavorare il gancio di alluminio in una direzione laterale, per cui il gancio stesso si era piegato e fiaccato.

Le fibre d’alluminio, pur robustissime, erano in parte state spezzate. Al momento di sostenere il peso del boma, hanno ceduto. Superfluo sottolineare il rischio corso da Marco. Non per colpa di nessuno. Non per colpa del costruttore del boma, che ha fatto il suo dovere. La colpa – che Marco si è subito accollato – semmai è stata quella di non accorgersi dell’uso improprio del gancio di alluminio. Cino non ha detto niente, ma è stato zitto per molto tempo, molto più del solito.


Marco, alla fine, ha detto: “Mi sono giocato un altro Jolly” riferendosi alle vite che il destino ha in serbo per noi. Ma non l’ha detto da sbruffone. Chissà cosa ha spinto questo ragazzo di buona-famiglia, avviato a una qualsiasi carriera concettuale, a sviluppare questo senso assolutamente fisico della vita. Comunque, non era ancora l’alba, Marco è andato in sala macchine, dove si è fatto la sua tana-officina, e ha tagliato un pezzo di acciaio, lo ha saldato ad un grillo e ha sostituito il pezzo rotto. Io sono rimasto impietrito. Ma in che razza di impresa ci siamo messi?

 

Diario della sera


Domani voglio fare un giro per la barca. Voglio capirla, questa barca bella e sicura. Sicura proprio perché è grande e pesante. Ma, proprio perché è pesante e grande, è pericolosa. Perché su una barchetta le manovre sono piccole e relativamente leggere. Qui un winch è enorme. Uno spinnaker trascina in alto anche 10 persone. Un boma pesa quintali. Qui, su Adriatica, non c’è spazio per gli errori. E un errore veniale, può costare letteralmente la vita. Capisco perché Marco vuol fare tutto lui, controllare tutto. Sente questa responsabilità. Lo capisco.

Anche stanotte, chiuso in bagno, ho ceduto a qualche minuto di pianto liberatorio. Ma, a differenza dell’altra volta, l’incidente e la tragedia sfiorata, non mi hanno sconnesso. Non mi sento fiaccato, semmai più motivato. Mi piace questa contraddizione: stiamo facendo una cazzata, ma tremendamente seria. Stiamo giocando, ma giocando pesante. Mi piace. C’è un altro modo di prendere la vita? Tutto questo è demenziale, ambiguo, ambivalente, contradditorio, complesso.

Mi viene in mente Freak Antoni, il nostro amico leader degli Skiantos, il gruppo rock demenziale di Bologna. Freak che sdrammatizza ma vive una vita drammatica. Ciao, Freak! Chissà perché mi è venuto in mente Freak e non Nelson, oppure Amundsen… sarà perché loro rischiavano la vita in modo troppo serio e drammatico.

 

Patrizio 

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