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Lotta di classe a Pantelleria

28 August 2009 ore 13:00

Stavo scrivendo in un bar. Mi chiama C., del mio equipaggio. Mi dice: “E’ meglio che vieni”. C. la conosco bene, ho capito che c’erano problemi alla barca. Arrivo lì in un baleno, e che ti vedo? Un 70 piedi (22 metri circa) che si era infilato nello spazio che non c’è, sgomitando tra barca e barca, dove neppure un 30 piedi sarebbe entrato. Le barche in banchina occupavano quasi tutto lo spazio (eravamo arrivati tutti verso metà giornata proprio per trovarlo) e quell’enorme, bellissimo veliero blu aveva forzato, si era infilato dove non poteva, ci aveva schiacciati tutti di qua e di là.

 

Per soprammercato, pare che mentre spingevano e forzavano, una signora amica dell’equipaggio, dal molo, abbia detto a voce alta: “dai che così nobilitate un po’ questo pontile!”, come a dire che la loro splendida barca avrebbe alzato un po’ il livello, bassino, delle barche presenti. Ora, si dà il caso che io manchi sempre quando dovrei esserci. Mi sarebbe piaciuto dirne quattro a quella snob. Non contenta, rivolta a me che mi lamentavo e aizzavo tutti i comandanti, mi ha dato una lezione di etica dicendomi “Del resto, nella nautica, ci si dovrebbe dare tutti una mano!”. Ho ringraziato la signora per la lezioncina senza dilungarmi sull’inadeguatezza semantica di “nautica” in luogo di “marineria” (o “diporto”), l’una industria e l’altra antica attività dell’uomo. Il fatto che lei attribuisse valori a un’industria definiva inderogabilmente l’abisso tra noi.

 

Morale, ci siamo ribellati. Ho chiesto chi dei brizzolati briatori a bordo fosse il comandante (si parla solo col comandante, mai con i “marinai”) e l’ho avvisato con testimoni che i danni subiti dalla mia barca sarebbero stati dovuti alla sua imperizia. G. lo skipper del Nugae, li ha informati che sedersi nel pozzetto come se l’ormeggio fosse terminato non era appropriato, visto che avevano causato un problema e loro dovevano risolverlo. Il malcapitato Comandante di quella bella barca ha tentato una minima reazione, sostenendo di avere anche lui diritto a stare al molo. L’ho informato che questo era vero, “Ma solo se c’è spazio”. Un paio di comandanti francesi, sulle loro imbarcazioni, guardavano la scena senza parole. Eccola lì la nostra epoca, ce l’avevamo davanti. Snobismo e mancanza di rispetto, furberia invece della fatica. Per avere un posto in porto, si rinuncia a mezza giornata in rada, dove fare il bagno è bello, dove si gode molto. Noi avevamo fatto così, e il posto ce lo eravamo guadagnato lealmente, come si fa sempre, senza spingere, senza fare atti di forza, senza pretendere. Il Comandante di quella grande barca a vela invece, applicava il metodo terrestre, quello del lavoro, della città. Vederlo in mare, faceva molta impressione. Tanti soldi non fanno di un armatore un marinaio.

Del resto, come ha commentato R., “una Bentley guidata dal facchino resta sempre la macchina del facchino”. L’ho trovato appropriato. In breve: sono andati via. Al grido di “Los Capitanos Hunidos Jamas Seran Vencidos” abbiamo goduto della nostra piccola vittoria nell’eterna lotta di classe.


Notti insonni

Sono le 23.00, Capo Bon, cala a sud ovest della punta. Il vento decide di girare. Prima sud-est, improvvisamente ovest. E’ notte, le barche in rada ballano, brandeggiano, si avvicinano agli scogli. Inizia a piovere, la catena geme tra le rocce. Tutti dormono, o soffrono nelle loro cabine. Che fare? Un punto è il comfort, quello prima è la sicurezza della barca. Tra una verifica dell’ancora e un tentativo di vedere la distanza dalla costa nonostante il buio, pensavo. Pensavo che il mare mi sta insegnando la pazienza e la decisione. A volte occorre saper attendere, altre sapersi decidere, muoversi e andare. Tra queste opzioni contrapposte c’è l’orizzonte della paura e quello della speranza, una linea a treccia che si dipana e si riavvolge, di ora in ora, di minuto in minuto. L’altra sera, ad esempio, ho atteso. Il mare insegna, rende piccoli, ridimensiona. Basta che non ci sia la luce, che il buio avvolga il marinaio, per fare di lui un essere dimezzato. Cosa conta se ci sia la luce o no? Le onde non saranno per questo più alte, il vento non diminuirà o aumenterà la sua forza. Eppure il cuore è in allarme, senza luce, gli occhi cercano senza trovare, le informazioni sono discontinue. Ho fatto l’alba a controllare che non andassimo a terra. Verso le 5.00 rischiavamo di prendere un altro groppo. I lampi violenti e azzurri si avvicinavano. Ho tolto l’ancora, sono andato a est per ripararmi oltre il capo. Ho pensato a lungo, ho spuntato la margherita della decisione e dell’attesa. Quando mi sono assopito, verso le 8.00, ho avuto un pensiero per il mare, grato per i nuovi insegnamenti ricevuti. Poche cose ci parlano così a lungo, per una vita, come il mare.


E' così

E’ proprio così, come dice Piero Ottone (”Piccola filosofia di un amore. La Vela”). In mare se si è tristi, si è più tristi. Se si è già felici, in mare si è più felici. Il grande blu accelera il battito delle emozioni, acuisce la percezione, rende più alti i marosi. Trovarsi in mare e essere in difficoltà fa dolere la carne, non solo il cuore. Fa trasalire, gemere, torcersi, implodere. La sua enormità preme dove c’è già pressione, mentre pochi giorni prima alleggeriva ancora dove c’era sollievo. Le medesime difficoltà, che fino a poco tempo prima parevano sale su una pietanza già buona, diventano fiele, irrancidiscono, avvelenano. Dal mare, non si può fuggire se non prendendo la via della terra. 

 

Finché ci si naviga dentro siamo in balia della buona e della cattiva sorte, che fanno quel che vogliono del guscio di noce su cui il nostro cuore cerca felicità e fronteggia dolore. Il grido è inascoltato, la richiesta d’aiuto si perde nel vento. Non c’è alcun riparo per la nostra àncora, solo onda, e onda, e onda, a perdita d’orizzonte. Le baie riparate pettinate dalla miglior brezza che fino a un giorno prima si susseguivano come regali inattessi, sono scomparse. Occorre resistere, in silenzio, tenere duro. Non c’è altra via. Non c’è alternativa. 

 

Simone Perotti

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